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LA BUFALA
 

 
Incerte e spesso contrastanti sono le nozioni sull’origine e sul progenitore del «bufalo mediterraneo». Certo è che il bufalo allevato in Italia (bufalo domestico) è del tipo River di razza «Murrah» come quella esistente in India (stesso assetto cromosomico). La parola «bufalo» indica un’origine esotica; infatti, non trova riscontro con alcun vocabolo delle due lingue Greco e Latino. Gli autori moderni applicarono a questo animale, l’appellativo, latino, di «Bubalus». Il nome «Bubalus» apparteneva anticamente ad un animale africano quella che si chiama oggi «vacca di Barberia».

Per quel che riguarda l’origine del bufalo in Italia ve ne sono molte, più accreditata è l’origine Asiatica. Alcuni autori sostengono però l’origine autoctona del bufalo Italiano basandosi sul ritrovamento di relitti fossili nel Lazio e nell’arcipelago toscano, risalenti al quaternario. La popolazione bufalina italiana può essere considerata omogenea per la conformazione esteriore, a differenza di quanto si verifica in Asia, dove esistono diverse razze e varietà. Una volta anche in Campania si pensava che esistessero due razze di bufali. In particolare, nel Salernitano la bufala occupava la zona bassa di Capaccio in Sinistra Sele e quella di Eboli-Battipaglia in destra, dove le acque stagnanti e il loro deposito calcareo nel sottosuolo rendevano quei pascoli sempre più poveri. Questo ambiente influì notevolmente sui caratteri somatici dell’animale fino a far pensare che la bufala in sinistra Sele fosse un’ altra razza. Infatti il bestiame allevato in sinistra Sele si distingueva nettamente da quello allevato in destra per la sua mole più piccola. I bufali sono degli imponenti ungulati appartenenti ai bovidi. 
Si hanno due tipi di bufali: il bufalo africano e il bufalo asiatico. Anche se fra i due vi è una certa rassomiglianza esteriore e lo stesso forte legame per l’acqua, non discendono dallo stesso progenitore. Anche oggi spesso si ritiene che il progenitore dell’attuale bufalo cafro appartenga alla specie asiatica e quindi ad una sottospecie del bufalo indiano o arni. In Africa non esisteva un habitat adatto all’arni, e probabilmente la convinzione degli scienziati che vi fosse in Africa una sottospecie di esso dipende da una inesatta interpretazione della forma delle corna, proprie del bufalo cafro. Anch’esso, infatti possiede corna piatte, solcate, che si aprono ampiamente verso l’esterno, come nel bufalo indiano. Oggi è affermato da autorevoli scienziati una sola stirpe africana, modificatasi poi attraverso le età dalle differenti condizioni di ambiente. 

Il bufalo vivendo nelle zone di impaludamento ove trascorreva il tempo a rivoltarsi nella melma dei pantani guardato da pastori a cavallo armati di lancia. Veniva adibito al tiro e di rado nella coltivazione dei campi essendo troppo indocile, nonostante gli anelli di ferro che gli si inserivano nelle narici che servivano alquanto a tenerlo a freno. L’attitudine più sfruttata era comunque quella della produzione del latte. Le bufale venivano raccolte all’ alba presso i centri aziendali (detti procoi o lestre o, più genericamente, pagliare) ove ciascuna di esse, chiamata per nome dal mandriano (CHIAMATORE) era fatta avvicinare al recinto dove di notte erano tenuti i vitelli e, alla’presenza del figlio, veniva legata (impastoiata) e munta. 

Le bufale, venivano, infatti, munte in presenza del figlio, senza del quale non si riusciva ad ottenere la «discesa» del latte, a causa di una azione riflessa inibente. Il bufalaro conosceva le sue bufale singolarmente, come se fossero «cristiani», tanto è vero che ad ognuna di esse dava un nome, e spesso anche una sorta di cognome, che era detto «a vutata» del nome (Scotellaro, 1940). Dopo il parto i bufalotti restavano con la madre 10-15 giorni, dopo di che venivano separati la sera per essere ospitati in recinti lontani. A 40 giorni dalla nascita, il bufalotto separato quasi totalmente dalla madre, veniva ricondotto alla bufala solo al mattino, al momento della mungitura e mentre il vitello succhiava un capezzolo, il mungitore mungeva gli altri tre. Dal terzo al quarto mese di età al bufalotto non veniva più fatto succhiare alcun capezzolo; esso, però, veniva ugualmente condotto alla presenza della madre per indurla a cedere il latte. Ultimata la mungitura i bufalotti venivano ricondotti al loro pascolo, lontano dalle madri, fino al mattino seguente. Il vitello maschio, a differenza della femmina, era considerato ospite indesiderato e gli era talvolta riservato un destino crudele, perché appena nato veniva ucciso per evitare uno sfruttamento inutile. Era mantenuto in vita soltanto nel caso di sostituzione di un riproduttore.
L’allevamento del bufalo era concentrato in Campania, più che altro nei «Mazzoni» di Capua, ossia nell’estesa pianura sita fra il Volturno e il Garigliano e nella «Piana» di Salerno. La resistenza organica che questa specie animale presenta nei confronti della piroplasmosi bovina ne favori l’utilizzo sia per la produzione del latte, che per il lavoro in quelle zone ricche di acquitrini, ove albergava l’Ixodes ricinus, vettore dell’agente patogeno (Piroplasma bigeminum). 

Altro fattore che ne favorì l’insediamento è la sua capacità di utilizzare i foraggi più grossolani: valido è pertanto il detto popolare che prima pascola il cavallo, poi la vacca e quindi il bufalo; infatti la microflora del rumine del bufalo è particolarmente attiva ed ha una capacità fermentativa, di natura batterica e protozoaria, superiore agli altri ruminanti per cui è capace di degradare i costituenti alimentari. Con l’avvento della bonifica idraulica, prima, ed integrale poi, in quelle zone l’allevamento bufalino fu quasi completamente sostituito con quello bovino. Ma l’allevamento dei bufali fu conservato per l’attaccamento di pochi allevatori, quali i fratelli Jemma che trasferirono una forte popolazione bufalina in provincia di Caserta, nei «Mazzoni» di Capua, alla località «Torre Lupara»,, dove oggi sorge la più grande azienda, d’importanza internazionale. 

 Il prof. Majmone, allora direttore della cattedra ambulante di agricoltura di Salerno, già nell’immediato primo dopoguerra, vide la possibilità e la convenienza economica di conservare la bufala e dimostrò che cambiando sistema di allevamento — da brado a semibrado e stallino — essa poteva inserirsi idoneamente e convenientemente in una moderna azienda zootecnica.
Oggi il sistema di allevamento del tipo pastorale brado, legato ai terreni acquitrinosi di cui valorizza i magri pascoli, può dirsi superato nelle zone tipiche di diffusione del bufalo. Il parto in aperta campagna, la cantilena di chiamata della bufala e la mungitura fatta alla presenza del bufalotto per stimolare la secrezione del latte, sono considerate superate dagli allevatori d’avanguardia. La bufala è considerata addirittura “l’animale del futuro”; per far sì che essa diventi tale, c’è bisogno di un suo miglioramento, effettuato dall’uomo attraverso la genetica. La valutazione genetica dei riproduttori è una delle discipline più importanti del miglioramento genetico. Una corretta valutazione genetica dei riproduttori consente di scegliere con precisione i riproduttori per creare gli animali delle future generazioni. 
 

 

 

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